Personale “Il bulino” – 15/10/1966

L’artista ha una grande fortuna rispetto agli altri uomini. Poco o tanto, qual­cosa di lui sopravvive quando ha chiuso la sua giornata di lavoro. È vero che anche questo è un concetto relativo. La critica che fa la pioggia e il bel tempo giudica infatti che pochi nomi sono quelli che hanno diritto di sopravvivere e, pur essendo nella pratica molto corriva con i facili esperimenti di troppi improv­visati, cosicché a credere alle malleverie gli artisti si dovrebbero contare a cen­tinaia e a migliaia per il periodo volta a volta corrente, quando poi si tratta di decidere in sede appena appena storica, salva pochissimi nomi; e per gli altri, la seconda morte. Io mi sono sempre rifiutato a un tal modo di giudicare. Poco propenso a credere nei miti (perfino gli artisti importanti, come andrebbero ridi­mensionali!) sono sempre disposto a considerare lo sforzo verso l’arte, che viene da una coscienza pura che tenta di intrecciare con gli uomini un discorso meno privato di quello che si svolge di solito frettolosamente nella nostra vita comune. E tra queste anime pure che hanno tentato di raccontare qualcosa agli uomini sta certo quella di Paolo Pace, sindaco di Tolentino per cinque anni, pittore, inse­gnante, incisore, scomparso prematuramente (aveva appena 45 anni) il 23 aprile 1961. Una certa fortuna Pace l’ha avuta, perché c’è chi lo ricorda e chi apprezza soprattutto queste sue incisioni dove si stende lo spazio fermo della sua campagna marchigiana, tanto poco astruse quanto efficaci nella narrazione di un paesaggio che ebbe in Luigi Bartolini e in altri incisori della scuola di Urbino, non dimen­tichiamole, una prima celebrazione moderna.

Il paesaggio di Pace è costruito. Costruiti gli alberi seguiti nella direzione dei loro rami verso un orizzonte di ciclo vuoto, costruiti i cespugli di cui si sente il maggiore o minore spessore, costruiti i più piccoli segni tutti necessari a far sentire il procedere netto dei piani. E poi, per animare questa stesura naturalistico-costruttiva, nell’angolo, alla maniera degli antichi incisori, per esempio del Dùrer, un fiorellino inciso in un riquadro, a mò di firma.

Il procedimento incisorio di Pace è semplice, di mestiere classico. La lastra di rame è trattata senza alcun trucco. In un’epoca di tanti trucchetti e infingimenti, un acquafortista come Pace può sembrare fin troppo normale. Ma questa mi sembra sia la sua qualità principale, che può dare una prospettiva alla comprensione ge­nerale del suo valore. Di buona cultura è l’adoprare la lastra in modo pulito, trasferendo l’impegno dell’immaginazione dal trucco casuale alla vera invenzione, come può essere la dilatazione di un fiore o di un cespuglio in primo piano, la considerazione in chiave fantastica di un’impalcatura o di un groviglio di fili telegrafici, tutto ciò insomma che costituisce il trasferimento da un piano pretta­mente naturalistico a quello di rielaborazione culturale del vero.

Paolo Pace ha vissuto in modo quasi isolato dalle strutture artistiche nazionali. Si ricordano i suoi studi all’Accademia di Roma, dove poi egli ha esercitato l’assistentato alla cattedra di pittura, una sua partecipazione a mostre internazionali della Calcografia Nazionale, nell’America latina, il suo invito alla Quarta Qua­driennale, alla mostra delle Olimpiadi e sue personali alla Cassapanca e alla Cairola. Non molto e sempre isolato. D’altra parte la sua sete di conoscenza della realtà, sull’orma dei migliori paesisti dell’Otto e del Novecento, non gli ha consentito transazioni con le improvvisazioni cosmopolite contemporanee. Le sue tenui, privale, acqueforti, che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di den­sità introspettive, da vero maestro, collocano Pace in quella autentica « élite » culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali.

Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che fa continua spola tra Copenaghen e Roma, tra Milano Amburgo, e che si giova del perfetto coordinamento di monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale appollaiato sulla collina, senza alambicchi o quiz figurali, nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia — il bagno nel fiume, i fiori di Valganna, l’intreccio delle bacche autunnali in un cespuglio — alcunché che possa interessarlo. Quella di Pace non è nuova figurazione, perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento?

Lo scherzo, l’ironia, il segno gestuale sono banditi innanzi che dalle lastre, dall’anima di Pace che ha lavorato prima per se che per il pubblico.

Ogni paesaggio visto lasciava in Pace un’impronta. Egli la restituiva alla lastra conservandone negli occhi l’ampia prospettiva quasi di nascosto. Così voleva preservare alla consumazione del tempo una tenue visione rievocata nella fantasia, la dolcezza tutta anima di una periferia cittadina o di una campagna come le può vedere il più sottile dei poeti, capace di incatenare a una visione indimenticabile.

I suoi mezzi sono purissimi: la striatura di una strada di campagna, il chiaroscuro spirituale in cui immerge un fiore, la punteggiatura degli alberi che da lo scheletro a un panorama, le macchioline bianche di commosso realismo dei fiori di campo, il simbolo figurativo di una corolla, la creazione di una mimosa come ricamo, l’emozione scattante ma metafisicamente pacificata di un fondo marino, la proposta di un piatto di granchi come natura morta assoluta.

Dovrei fare dei nomi. Sono troppo fascinosi e mitici per pronunciarli. Preferisco consegnare al pubblico una sertie di esempi, che forse domani potranno alimentare la piccola leggenda di un poeta morto giovane.

Li enuncio. Tra le acqueforti più traslate: Flora marina, Margherite, Rose, Periferia di Milano, Fiori di campo, Fiori e paesaggio, I tronchi; tra quella più naturalistiche: I fili del telegrafo, Gli ulivi chiari, Fiori in Valganna, Il pagliaio, La strada di campagna, La valle, Le mimose, Garofani e tulipani.

Raffaele De Grada.

Retrospettiva Tolentino – 08-22/09/1963

LA MOSTRA È PROMOSSA DALLA
AMMINISTRAZIONE COMUNALE DI TOLENTINO

ED ORGANIZZATA DALLA
AZIENDA AUTONOMA DI SOGGIORNO CURA E TURISMO DI TOLENTINO

Nato a Tolentino nelle Marche nel 1914, Paolo Pace fin dalla tenera età ha rivelato una particolare vocazione verso l’arte pittorica. Ha frequentato i corsi di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, dove, successivamente ha espletato funzioni di docente in qualità di assistente alla cattedra di Pittura. Invitato alla Quarta Quadriennale d’Arte di Roma, una sua opera, in tale occasione, fu acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Oltre alla quarta e alla quinta quadriennale ha partecipato a varie mostre collettive, come quelle organizzate dalla Calcografia Nazionale a Santiago del Cile, a Rio e S. Paolo in Brasile, alla Biennale Nazionale di Disegno. Notevoli furono le sue personali a La Cassapanca di Roma negli anni 1959, 1960, 1961. Grande successo ebbe una sua personale alla Galleria Cairola di Milano, ove espose nel 1959.

Ha partecipato alla Mostra Permanente delle Olimpiadi di Roma e successivamente ha vinto il premio « Olimpiadi dei Clowns ».

Paolo Pace si è trovato a capo della Amministrazione comunale di Talentino per cinque anni, attendendo con competente impegno e vivo senso di responsabilità all’alto ufficio e rivelando rare doti di amministratore sensibile ed onesto.

Si è spento immaturamente in Tolentino il 23 aprile 1961.

CAPANNE SU PALAFITTE
(olio)

La sua arte ha ripetutamente ottenuto vivi consensi da parte della critica.

« Paolo Pace, scrive Enrico Contardi, artista marchigiano, espone per la seconda volta a Roma e presenta quasi esclusivamente fiori: dai girasoli agli anemoni, dalle rose ai giacinti, ai crisantemi, ai garofani, tutti raccolti in vasi dalle trasparenze lattiginose come quelle delicate porcellane vitree che vedevamo sui cassettoni delle nostre nonne. I fiori di Paolo Pace cantano un inno alla gioia serena e pacata della famiglia, hanno una singolare « aria di casa » e c’invitano quasi al raccoglimento ».

Il Giornale d’Italia del 19 aprile 1961 riporta:

« Pace è anche e soprattutto diremmo uno squisito incisore e la sua pittura tonalmente raffinata, costruita a larghe macchie di colore denso e sobrio lo ricorda in qualche modo, particolarmente per la preziosità dei bianchi crudi e pel tagliente contrasto di questi con l’oscurità bruno-grigia dei corpi seminudi, nelle opere di figura: o anche per i sapienti incastri ad esempio nei quadri di fiori, tra forme e stesure di fondo.

E’ una pittura solida asciutta parca di colore e di luce, specialmente nelle composizioni con le adolescenti semisvestite e forma-mente vigorosa oltre che ricca di finezze tonali anche in quei dipinti in cui prevale la tecnica macchiaiola, solo apparentemente impostati sul puro colore di controluce ».

Di lui ha scritto il noto critico d’arte Ugo Nebbia:

« Natura assorta e pensierosa, che par talora sconfinare nel romantico; anche se la solida disciplina della sua preparazione non sembra concedergli incompostezze o abbandoni. Natura che si riflette nei toni pacati, quasi smorzati che predilige; nell’armoniosa delicatezza di certe sue gamme del tutto in sordina, come per vietarsi qualunque sensuale effetto pittorico; tanto nelle sue figurazioni e nei suoi motivi paesistici, quanto dove certe nature morte di fiori .secchi e di modesti oggetti, paiono accendergli di preferenza l’estro, e suggerirgli i più delicati e suggestivi   spunti   compositivi   e   coloristici ».

Si ritiene opportuno, infine, riportare un significativo brano di una lettera del prof. Alessandro Zazzaretta, delle Scuole Superiori di Roma, al quale il Comitato Organizzatore aveva chiesto di compilare un breve saggio su Paolo Pace artista:

« Che potrei io dire di Paolo se non che era il più caro amico dei miei amici e che partendo ha portato con sé metà di me stesso? Ma questo alla gente poco importa. Per parlare di Paolo occorre il tecnico della Sua arte, il critico qualificato che sappia sviscerarne l’opera e ricercarne le fonti nella Sua anima cosi riccamente dotata; occorre chi nell’acuta sensibilità di lui sappia cogliere il segreto di quell’armonia di luce e di colore che inequivocabilmente lo individua nel vasto e vario e non sempre limpido panorama dell’arte odierna. Altri due anni — mi disse quando ci parlai l’ultima volta — avrebbe voluto per dire tutto quello che si sentiva di poter dire: e non li ebbe, e partì col sogno chiuso nel cuore, col rammarico di aver visto la meta e di non averla potuta toccare. Ma quel che ha realizzato basterà a ricordarlo a noi e a quelli che verranno dopo di noi ».

CLOWN
(olio)

JACQUELLINE
(olio)

CASSANO D’ADDA
(olio)

Il Comitato organizzatore curerà la pubblicazione di una estesa monografia di Paolo Pace, affidandola ad un critico qualificato. Tale pubblicazione conterrà un elenco il più completo possibile di tutte le sue opere sia; del periodo milanese che di quello romano.

Mostra “Biblioteca comunale di Milano” – 1965

L’artista ha una grande fortuna rispetto agli altri uomini. Poco o tanto, qualcosa di lui sopravvive quando ha chiuso la sua giornata di lavoro. È vero che anche questo è un concetto relativo. La critica che fa la pioggia e il bel tempo giudica infatti che pochi nomi sono quelli che hanno diritto di sopravvivere e, pur essendo nella pratica molto corriva con i facili esperimenti di troppi improvvisati, cosicché a credere alle malleverie gli artisti si dovrebbero contare a centinaia e a migliaia per il periodo volta a volta corrente, quando poi si tratta di decidere in sede appena appena storica, salva pochissimi nomi; e per gli altri, la seconda morte.

Io mi sono sempre rifiutato a un tal modo di giudicare. Poco propenso a credere nei miti (perfino gli artisti importanti, come andrebbero ridimensionati!) sono sempre disposto a considerare lo sforzo verso l’arte, che viene da una coscienza pura che tenta di intrecciare con gli uomini un discorso meno privato di quello che si svolge di solito frettolosamente nella nostra vita comune. E tra queste anime pure che hanno tentato di raccontare qualcosa agli uomini sta certo quella di Paolo Pace, sindaco di Tolentino per cinque anni, pittore, insegnante, incisore, scomparso prematu­ramente (aveva appena 45 anni) il 23 aprile 1961. Una certa fortuna Pace l’ha avuta, perché c’è chi lo ricorda e chi apprezza soprattutto queste sue incisioni dove si stende lo spazio fermo della sua campagna marchigiana, tanto poco astruse quanto efficaci nella narrazione di un paesaggio che ebbe in Luigi Bartolini e in altri incisori della scuola di Urbino, non dimentichiamolo, una prima celebrazione moderna.

I1 paesaggio di Pace è costruito. Costruiti gli alberi seguiti nella direzione dei loro rami verso un orizzonte di cielo vuoto, costruiti i cespugli di cui si sente il maggiore o minore spessore, costruiti i più piccoli segni tutti necessari a far sentire il procedere netto dei piani. E poi, per animare questa stesura naturalistico-costruttiva, nell’angolo, alla maniera degli antichi incisori, per esempio del Durer, un fiorellino inciso in un riquadro, a mò di firma. Il procedimento incisorio di Pace è semplice, di mestiere classico. La lastra di rame è trattata senza alcun trucco. In un’epoca di tanti trucchetti e infingimenti, un acquafortista come Pace può sembrare fin troppo normale. Ma questa mi sembra sia la sua qualità principale, che può dare una prospettiva alla comprensione generale del suo valore. Di buona cultura è l’adoprare la lastra in modo pulito, trasferendo l’impegno dell’immaginazione dal trucco casuale alla vera invenzione, come può essere la dilatazione di un fiore o di un cespuglio in primo piano, la considerazione in chiave fantastica di un’impalcatura o di un groviglio di fili telegrafici, tutto ciò in-somma che costituisce il trasferimento da un piano prettamente naturalistico a quello di rielaborazione culturale del vero. Paolo Pace ha vissuto in modo quasi isolato dalle strutture artistiche nazionali. Si ricordano i suoi studi all’Accademia di Roma, dove poi egli ha esercitato l’assistentato alla cattedra di pittura, una sua partecipazione a mostre internazionali della Calcografia Nazionale, nell’America latina, il suo invito alla Quarta Quadriennale, alla mostra delle Olimpiadi e sue personali alla Cassapanca e alla Cairola. Non molto e sempre isolato. D’altra parte la sua sete,di conoscenza della realtà, sull’orma dei migliori paesisti dell’Otto e del Novecento, non gli ha consentito transazioni con le improvvisazioni cosmopolite contemporanee. Le sue tenui, private.aqcueforti che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di densità retrospettiva da vero maestro. collocano Pace in quell’autentica “Elite” culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali. Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che fa continua spola tra Copenaghen e Roma, tra Milano Amburgo, e che si giova del perfetto coordinamento di monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale appollaiato sulla collina, senza alambicchi o quiz figurali, nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia — il bagno nel fiume, i fiori di Valganna, l’intreccio delle bacche autunnali in un cespuglio — alcunché che possa interessarlo. Quella di Pace non è nuova figurazione, perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento?

Lo scherzo, l’ironia, il segno gestuale sono banditi innanzi che dalle lastre, dall’anima di Pace che ha lavorato prima per sé che per il pubblico.

Ogni paesaggio visto lasciava in Pace un’impronta Egli la restituiva alla lastra, conservandone negli occhi l’ampia prospettiva, quasi di nascosto. Cosi voleva preservare alla consumazione del tempo una tenute visione rievocata nella fantasia, la dolcezza tutta animata di una periferia cittadina o di una  campagna come le può vedere il più sottile dei poeti, capace di incatenare ad una visione indimenticabile. I suoi mezzi sono purissimi: la striatura di una strada di campagna, il chiaroscuro spirituale in cui immerge un fiore, 1° punteggiatura degli alberi che da lo scheletro a un panorama, le macchioline bianche di commosso realismo dei fiori di campo, il simbolo figurativo di una corolla, la creazione di una mimosa come ricamo, l’emozione scattante ma metafisicamente pacificata di un fondo marino, la proposta di un piatto di granchi come natura morta assoluta.

Dovrei fare dei nomi. Sono troppo fascinosi e mitici per pronunciarli. Preferisco consegnare al pubblico una serie di esempi, che forse domani potranno alimentare la piccola leggenda di un poeta morto giovane. Li enuncio. Tra le acqueforti più traslate: Flora marina, Margherite, Rose, Periferia di Milano, Fiori di campo, Fiori e paesaggio, i Tronchi; tra quelle più naturalistiche: / Fili del telegrafo, Gli ulivi chiari, Fiori in Valganna, il Pagliaio, La Strada di campagna, La Falle, Le Mimose, Garofani e tulipani.

Raffaele De Grada

Mostra “Terme di Miradolo” – 1964

PAOLO  PACE

nacque nel 1914 nelle Marche, a Tolentino. Frequentò i corsi di pittura all’Accademia di bette Arti di Roma è vi  insegnò poi come Assistente alla Cattedra di Pittura.

Ha partecipato su invito alla Quarta e Quinta Qua­driennale di Roma e, ad alcune collettive a Santiago del Cile, a Rio e San Paolo in Brasile écc.

Ha esposto nel ’59 atta Galleria « Cassapanca » di Roma e alla Galleria Cairola di Milano.

Nel ’60 vinse il premio Olimpiadi dei Clowns. È scomparso recentemente in seguitò ad una grave malattia.

L’opera pittorica di Pace non ha davvero bisogno dei soliti imbonimenti di parole per essère valutata come merita: siamo di fronte ad un artista che sa benissimo il fatto suo, e che non si serve di certi equivoci formali o concettuali per mostrarcelo. Un artista che ha maturato, anzi raffinato piuttosto in silenzio la bontà del proprio Istinto nativo se­guitando a credere nella virtù di certi cationi fondamen­tali, per non dire eterni dell’arte è del mestiere che ad essa conduce. In una parola, ad uno che ha avuto ancora il coraggio di servirsi di una grammatica e d’una sintassi per far capire a tutti, fino in fondo, come e perché il suo sentimento cerca di diventare pittura. E farlo capire — intendiamoci — senza epici affanni d’essere creatore di un nuovo linguaggio; sempre tuttavia rivelando, senza il minimo sotterfugio e spesso assai da vicino, qual è In fondo la sua natura d’uomo, oltre che d’artista.

Natura assorta e pensierosa, che par talora sconfinare nel romantico; anche se la solida disciplina della sua preparazione non sembra certo concedergli incompostezze o abbandoni. Natura che si riflette nei toni pacati, quasi smorzati che predilige; nell’armoniosa delicatezza di certe sue gamme del tutto in sordina, come per vietarsi qualunque sensuale effetto pittorico; tanto nelle sue figurazioni che nei suoi motivi paesistici.   

L’impegno con cui si è allenato nei diversi campi dell’arte può confermarlo pure il singolare suo interesse nei diversi rami dell’incisione, e specialmente dell’acquaforte in cui può dirsi un maestro, e che possono rappresentare uno dei capitoli più degni d’attenzione del suo sempre personale fervore per l’arte.  

UGO NEBBIA

Mostra Cairola – 03/12/1959 Milano

LA  SIGNORIA  VOSTRA   È  INVITATA ALLA INAUGURAZIONE    DELLA    MOSTRA    DI

PAOLO    PACE

CHE  AVRÀ  LUOGO   GIOVEDÌ 3  DICEMBRE ALLE ORE 17,30 ALLA GALLERIA CAIROLA

La Galleria Cairola resta aperta tutti i giorni dalle ore  10 alle  12,30 e dalle 16 alle 19,30

Nato nel 1914 nelle Marche, a Tolentino. Ha frequen­tato i corsi di Pittura alle Accademia di Belle Arti dì Roma, dove, successivamente, ha insegnato in qualità di assistente alla Cattedra di pittura. Invitato alla Quarta Quadriennale d’Arte di Roma, una sua opera, in tale mostra, fu acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Oltre alla Quarta e Quinta Quadriennale ha partecipato ad alcune mostre col­ettive, come quelle organizzate dalla Calcografia Nazionale a Santiago del Cile, a Rio e 5. Paolo in Brasile, alla Biennale Nazionale del disegno ecc.

Paolo Pace ha una esperienza al­meno ventennale nel campo del­l’arte, dove ha trovato le sue mi­gliori risorse, per non dire la sua ragione di vita
Con tutto ciò, preferiamo piuttosto definirlo un esordiente in quello di certi contatti col pubblico ; poiché, anche se qualche volta s’è fatto valere in qualche mostra colletti­va, credo sia rimasto finora tra i più estranei al ritmo incessante delle solite «personali». \Owtt-, Beato lui — diciamogli allora — se ha potuto così vivere e lavorare come meglio se la sentiva, in pie­na coerenza con la propria natura alquanto schiva ed appartata ; non per timore di non mostrarsi abba­stanza aggiornato, ma neppure per soverchia presunzione del suo stes­so anticonformismo ; senza, cioè, sbandare tra le diverse correnti che pretendono definire i nuovi tempi dell’arte, né divagare tra i compromessi e le complicazioni discorsive di chi d’arte non sembra interessarsi, se non per ragionar­ci sopra.

Beato lui — ripetiamo — se oggi lo possiamo ravvisare, per così dire, alla prima: vale a dire riconoscere quale è, non quale vorreb­be estere; vittima, cioè, meno di tanti altri della pericolosa smania di far sentire la propria voce nel frastuono sempre più assordante dell’arte dei nostri curiosi tempi. Ho detto alla prima, poiché — co­me ognuno può capire da sé, cioè vedere coi propri occhi nell’odier­na sua offerta, dove l’accento più affabile e suadente non svaluta certo la poetica intimità del suo limpido discorso pittorico — la se­rena maturanza d’un artista come Pace non ha davvero bisogno dei soliti imbonimenti di parole per es­sere valutata come merita: valutata — diciamolo pure — anche da quelli che sono vittime, più o me­no coscienti, di certe parafrasi cerebrali o di certi divaganti este­tismi, che vorrebbero relegare chi si serve ancora d’un linguaggio alla portata di tutti, nel limbo ana­cronistico di quelli che non capi­scono le esigenze dell’era atomica.

Ma, non confondiamoci. A noi ba­sta capire che siamo di fronte ad un artista che sa benissimo il fat­to suo, e che non si serve di cer­ti equivoci formali o concettuali per mostrarcelo: ad uno che ha maturato, anzi raffinato piuttosto in silenzio la bontà del proprio istinto nativo, seguitando a crede­re nella virtù di certi canoni fon­damentali, per non dire eterni del­l’arte e del mestiere che ad essa conduce. In una parola, ad uno che ha ancora il coraggio dì ser­virsi d’una grammatica e d’una sintassi per far capire a tutti, fi­no in fondo, come e perché il suo sentimento cerca di diventare pit­tura. E farlo capire — intendiamoci — senza epici affanni d’essere creatore di un nuovo linguaggio; sempre tuttavia rivelando, senza il menomo sotterfugio, e spesso assai da vicino, qual’é in fondo la sua natura d’uomo, oltre che d’ar­tista.
Natura assorta e pensierosa, che par talora sconfinare nel romantico; anche se la solida disciplina della sua preparazione non sembra certo concedergli incompostezze o abbandoni. Natura che si riflette nei toni pacati, quasi smorzati che predilige ; nell’armoniosa delica­ tezza di certe sue gamme del tut­to in sordina, come per vietarsi qualunque sensuale effetto pittorico; tanto nelle sue figurazioni e nei suoi motivi paesistici, quanto dove certe nature morte di fiori secchi e di modesti oggetti, paio­no accendergli di preferenza l’estro, e suggerirgli i più delicati è suggestivi spunti compositivi e co­loristici.

Niente, con tutto ciò, di crepusco­lare, e, tanto meno di letterario. Non dimentichiamo, tra l’altro, che Pace, anche se ha da qualche an­no superato lo scoglio della qua­rantina, può dirsi uno dei più va­lidi esponenti della nostra miglio­re razza ; anzi di quelli che, pur tenendo bene aperti gli occhi in­torno a sé, hanno subito meno distrazioni nel campo artistico dove ha sempre vissuto ed operato. Senza proprio definirlo un solitario o un orgoglioso, mi pare che la più intima sua coerenza con se stesso si concili dì preferenza con un suo modo di vivere operosa­mente appartato.

L’impegno con cui si è allenato nei diversi campi dell’arte può con­fermarlo pure il singolare suo in­teresse nei diversi rami dell’inci­sione, e specialmente dell’acqua­forte in cui può dirsi un maestro, e che possono rappresentare uno dei capitoli più degni d’attenzione del suo sempre personale fervo­re per l’arte.

Da circa un decennio s’è stabilito a Milano, non solo per tener desta la sua attività di calcografo, ma per esercitarsi in ogni campo del­le arti grafiche; raffinando di con­tinuo la sua produzione, aggior­nandola secondo le più recenti risorse tecniche in materia.

Può confermarlo, tra l’altro, quanto va producendo e diffondendo attra­verso la serigrafia, e quello che intanto va cercando per dare qual­che più convincente impronta d’ar­te a quella specie di miracolosa materia, dall’apparenza incorrutti­bile, che è il laminato plastico « Formica ». Chi ne coglie qualche spunto anche nei saggi pittorici di questa mostra, credo che potreb­be augurarsi che un artista come il nostro Pace trovi il giusto mez­zo per conciliare la soffusa deli­catezza dei suoi motivi, con le singolari risorse ornamentali d’una simile materia.

UGO   NEBBIA

Mostra antologica commemorativa – 24/09/1972

MOSTRA ANTOLOGICA COMMEMORATIVA

DI

PAOLO PACE

(1914-1961)

Per iniziativa dell’Azienda Autonoma di Soggiorno Cura e Turismo di Tolentino, con il concorso della Amministrazione Comunale.

TOLENTINO – SALONE S. GIACOMO

DAL 10 AL 24 SETTEMBRE 1972

L’Azienda Turismo di Tolentino ha finora organizzato, per onorare la memoria di Paolo Pace, una Mostra retrospettiva nel Settembre 1963 e due Biennali dell’Incisione per Giovani — « Premio Paolo Pace » — negli anni 1966 e 1968.

Attraverso l’odierna Mostra antologica che comprende buona parte delle migliori opere di Paolo Pace, a undici anni dalla sua immatura scomparsa, l’Azienda Turismo di Tolentino, in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, ha voluto riproporre alla ammirazione dei concittadini e di tutti gli intenditori e gli appassionati, ma soprattutto a quella dei giovani affinchè ne possano trarre un utile ammaestramento, l’arte nobilissima e originale di questo singolare e valoroso artista che, con il passare degli anni, si conferma sempre più autorevolmente fra i pittori e gli incisori più rappresentativi della sua generazione.

Un vivo ringraziamento, per la cortesia usataci nel prestare le opere di Paolo Pace per questa Mostra, vada alla Vedova Signora Laura Pace Benadduci, alla Sorella Signora Anna Mari Pace, alla Signora Giara Brandi Gabrielli, alla Signorina Velia Farabolini e al dr. Aldo Nardi.

Nato a Tolentino nel 1914, Paolo Pace fin dalla tenera età rivelò una particolare vocazione verso l’arte pittorica. Frequentò i corsi di Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma dove, successivamente, espletò funzioni di docente in qualità di assistente alla Cattedra di Pittura. Invitato alla quarta Quadriennale d’Arte di Roma, una sua opera, in tale occasione, fu acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Oltre alla quarta e alla quinta Quadriennale, partecipò a varie mostre collettive, come quelle organizzate dalla Calcografia Nazionale a Santiago del Cile, a Rio de Janeiro e S. Paulo in Brasile, alla Biennale Nazionale di Disegno. Notevoli furono le sue personali a « La Cassapanca » di Roma negli anni 1959, 1960, 1961.

Grande successo ebbe una sua personale alla Galleria Cairola di Milano, ove espose nel 1959.

Partecipò alla Mostra Permanente delle Olimpiadi di Roma e successivamente vinse il premio « Olimpiadi Clowns ». Mentre attraverso l’indiscusso valore della sua Arte, sia nel campo della pittura che in quello della incisione, cominciava a raccogliere i più lusinghieri e unanimi riconoscimenti, un terribile male lo spense a soli 47 anni, a Tolentino, nell’aprile del 1961.


Riportiamo brani da alcuni dei molti consensi riscossi da Paolo Pace da parte della critica:

– « Paolo Pace » scrisse Enrico Contardi, « espone per la seconda volta a Roma e presenta quasi esclusivamente fiori: dai girasoli agli anemoni, dalle rose ai giacinti, ai crisantemi, ai garofani, tutti raccolti in vasi dalle trasparenze lattiginose come quelle delicate porcellane vitree che vedevamo sui cassettoni delle nostre nonne.

I fiori di Paolo Pace cantano un inno alla gioia serena e pacata della famiglia, hanno una singolare « aria di casa » e c’invitano quasi al raccoglimento ».

Il Giornale d’Italia del 19 aprile 1961 riportava:

« Pace è anche e soprattutto diremmo uno squisito incisore e la sua pittura tonalmente raffinata, costruita a larghe macchie di colore denso e sobrio lo ricorda in qualche modo, particolarmente per la preziosità dei bianchi crudi e pel tagliente contrasto di questi con la oscurità bruno – grigia dei corpi seminudi, nelle opere di figura: o anche per i sapienti incastri ad esempio nei quadri di fiori, tra forme e stesure di fondo.

E’ una pittura solida asciutta parca di colore e di luce, specialmente nelle composizioni con le adolescenti semisvestite e formalmente vigorosa oltre che ricca di finezze tonali anche in quei dipinti in cui prevale la tecnica macchiaiola, solo apparentemente impostati sul puro colore di controluce ».

Di lui scrisse il noto critico d’arte Ugo Nebbia:

« Natura assorta e pensierosa, che par talora sconfinare nel romantico; anche se la solida disciplina della sua preparazione non sembra concedergli incompostezze o abbandoni. Natura che si riflette nei toni pacati, quasi smorzati che predilige; nell’armoniosa delicatezza di certe sue gamme del tutto in sordina, come per vietarsi qualunque sensuale effetto pittorico; tanto nelle sue figurazioni e nei suoi motivi paesistici, quanto dove certe nature morte di fiori secchi e di modesti oggetti, paiono accendergli di preferenza l’estro, e suggerirgli i più delicati e suggestivi spunti compositivi e coloristici ».

Stralciamo qualche riga da un approfondito studio che scrisse Raffaele De Grada nel 1966:

« Paolo Pace ha vissuto in modo quasi isolato dalle strutture artistiche nazionali. D’altra parte la sua sete di conoscenza della realtà, sull’orma dei migliori paesisti dell’Otto e del Novecento non gli ha consentito transazioni con le improvvisazioni cosmopolite contemporanee. Le sue tenui, private acqueforti, che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di densità introspettive, da vero maestro, collocano Pace in quella autentica « élite » culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali.

Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che fa continua spola tra Copenaghen e Roma, tra Milano Amburgo, e che si giova del perfetto coordinamento di monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale appollaiato sulla collina, senza alambicchi o quiz figurali, nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia — il bagno nel fiume, i fiori di Valganna, l’intreccio delle bacche autunnali in un cespuglio — alcunché che possa interessarlo. Quella di Pace non è nuova figurazione, perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento? ».

Ci piace di riportare infine ancora una volta, quello che su Paolo Pace scrisse il Prof. Alessandro Zazzaretta:

« Che potrei io dire di Paolo se non che era il più caro amico dei miei amici e che partendo ha portato con sé metà di me stesso ? Ma questo alla gente poco importa. Per parlare di Paolo occorre il tecnico della Sua arte, il critico qualificato che sappia sviscerare l’opera e ricercarne le fonti nella Sua anima così riccamente dotata; occorre chi nell’acuta sensibilità di lui sappia cogliere il segreto di quell’armonia di luce e di colore che inequivocabilmente lo individua nel vasto e vario e non sempre limpido panorama dell’arte odierna. Altri due anni — mi disse quando ci parlai l’utima volta — avrebbe voluto per dire tutto quello che si sentiva di poter dire: e non li ebbe, e partì col sogno chiuso nel cuore, col rammarico di aver visto la meta e di non averla potuta toccare. Ma quel che ha realizzato basterà a ricordarlo a noi e a quelli che verranno dopo di noi ».

La Verritrè

L’artista ha una grande fortuna rispetto agli altri uomini. Poco o tanto, qual­cosa di lui sopravvive quando ha chiuso la sua giornata di lavoro. È vero che anche questo è un concetto relativo. La critica che fa la pioggia e il bel tempo giudica infatti che pochi nomi sono quelli che hanno diritto di sopravvivere e, pur essendo nella pratica molto corriva con i facili esperimenti di troppi improv­visati, cosicché a credere alle malleverie gli artisti si dovrebbero contare a cen­tinaia e a migliaia per il periodo volta a volta corrente, quando poi si tratta di decidere in sede appena appena storica, salva pochissimi nomi; e per gli altri, la seconda morte. Io mi sono sempre rifiutato a un tal modo di giudicare. Poco propenso a credere nei miti (perfino gli artisti importanti, come andrebbero ridi­mensionati!) sono sempre disposto a considerare lo sforzo verso l’arte, che viene da una coscienza pura che tenta di intrecciare con gli uomini un discorso meno privato di quello che si svolge di solito frettolosamente nella nostra vita comune. E tra queste anime pure che hanno tentato di raccontare qualcosa agli uomini sta certo quella di Paolo Pace, sindaco di Tolentino per cinque anni, pittore, inse­gnante, incisore, scomparso prematuramente (aveva appena 45 anni) il 23 aprile 1961. Una certa fortuna Pace l’ha avuta, perché c’è chi lo ricorda e chi apprezza soprattutto queste sue incisioni dove si stende lo spazio fermo della sua campagna marchigiana, tanto poco astruse quanto efficaci nella narrazione di un paesaggio che ebbe in Luigi Bartolini e in altri incisori della scuola di Urbino, non dimen­tichiamolo, una prima celebrazione moderna.

Il paesaggio di Pace è costruito. Costruiti gli alberi seguiti nella direzione dei loro rami verso un orizzonte di ciclo vuoto, costruiti i cespugli di cui si sente il maggiore o minore spessore, costruiti i più piccoli segni tutti necessari a far sentire il procedere netto dei piani. E poi, per animare questa stesura naturalistico-costruttiva, nell’angolo, alla maniera degli antichi incisori, per esempio del Durer, un fiorellino inciso in un riquadro, a mò di firma.

Il procedimento incisorio di Pace è semplice, di mestiere classico. La lastra di rame è trattata senza alcun trucco. In un’epoca di tanti trucchetti e infingimenti, un acquafortista come Pace può sembrare fin troppo normale. Ma questa mi sembra sia la sua qualità principale, che può dare una prospettiva alla comprensione ge­nerale del suo valore. Di buona cultura è l’adoprare la lastra in modo pulito, trasferendo l’impegno dell’immaginazione dal trucco casuale alla vera invenzione, come può essere la dilatazione di un fiore o di un cespuglio in primo piano, la considerazione in chiave fantastica di un’impalcatura o di un groviglio di fili telegrafici, tutto ciò insomma che costituisce il trasferimento da un piano pretta­mente naturalistico a quello di rielaborazione culturale del vero.

Paolo Pace ha vissuto in modo quasi isolato dalle strutture artistiche nazionali. Si ricordano i suoi studi all’Accademia di Roma, dove poi egli ha esercitato l’assi­stentato alla cattedra di pittura, una sua partecipazione a mostre internazionali della Calcografia Nazionale, nell’America latina, il suo invito alla Quarta Qua­driennale, alla mostra delle Olimpiadi e sue personali alla Cassapanca e alla Cairola.

Non molto e sempre isolato. D’altra parte la sua sete di conoscenza della realtà, sull’orma dei migliori paesisti dell’Otto e del Novecento, non gli ha consentito transazioni con le improvvisazioni cosmopolite contemporanee. Le sue tenui, private, acqueforti, che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di den­sità introspettive, da vero maestro, collocano Pace in quella autentica « élite » culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali.

Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che fa continua spola tra Copenaghen e Roma, tra Milano e Amburgo, e che si giova del perfetto coordi­namento dei monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale ap­pollaiato sulla collina, senza alambicchi o quiz figurali, nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia — il bagno nel fiume, i fiori di Valganna, l’intreccio delle bacche autunnali in un cespuglio — alcunché che possa interessarlo. Quella di Pace non è nuova figurazione, perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento?

Lo scherzo, l’ironia, il segno gestuale sono banditi innanzi che dalle lastre, dal­l’anima di Pace che ha lavorato prima per sé che per il pubblico.

Ogni paesaggio visto lasciava in Pace un’impronta. Egli la restituiva alla lastra, conservandone negli occhi l’ampia prospettiva, quasi di nascosto. Così voleva preservare alla consumazione del tempo una tenue visione rievocata nella fan­tasia, la dolcezza tutta anima di una periferia cittadina o di una campagna come le può vedere il più sottile dei poeti, capace di incatenare a una visionne indi­menticabile. I suoi mezzi sono purisimmi: la striatura di una strada di campagna, il chiaroscuro spirituale in cui immerge un fiore, la punteggiatura degli alberi che da lo scheletro a un panorama, le macchioline bianche di commosso rea­lismo dei fiori di campo, il simbolo figurativo di una corolla, la creazione di una mimosa come ricamo, l’emozione scattante ma metafisicamente pacificata di un fondo marino, la proposta di un piatto di granchi come natura morta assoluta.

Dovrei fare dei nomi. Sono troppo fascinosi e mitici per pronunciarli. Prefe­risco consegnare al pubblico una serie di esempi, che forse domani potranno alimentare la piccola leggenda di un poeta morto giovane. Li enuncio. Tra le acqueforti più traslate: Flora marina, Margherite, Rose, Periferia di Milano, Fiori di campo, Fiori e paesaggio, i Tronchi; tra quelle più naturalistiche : I Fili del telegrafo, Gli ulivi chiari, Fiori in Valganna, il Pagliaio, La Strada di cam­pagna, La Valle, Le Mimose, Garofani e tulipani.

Raffaele De Grada

 

“La Verritrè”

Mostra dei dipinti tenuta a Milano presso la galleria Verritrè dal 19 al 29 ottobre 1966.

“La vernice:”

(lo scritto è l’articolo di De Grada già inserito su “il bulino”)

Articolo sul giornale di Pavia di Pino Zanchi del 17/11/1966

Pace

Lirismo di istintiva presa per la finezza dell’ispirazione e per l’interiore drammatici­tà del racconto, questo di Paolo Pace (Galleria Verritrè, via Verri 3) che presenta una serie assai interessante di opere che se da un lato rive­lano un mestiere-principe, dall’altro conservano il pro­fumo di una semplicità auten­tica fatta di dolcezza spiri­tuale. Peccato che l’autore ci abbia lasciati: avrebbe po­tuto darci ancora « momenti » intimamente legati al suo pensiero interiore, alla sua costruzione tematica sempre limpida e nobile.

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