L’artista ha una grande fortuna rispetto agli altri uomini. Poco o tanto, qualcosa di lui sopravvive quando ha chiuso la sua giornata di lavoro. È vero che anche questo è un concetto relativo. La critica che fa la pioggia e il bel tempo giudica infatti che pochi nomi sono quelli che hanno diritto di sopravvivere e, pur essendo nella pratica molto corriva con i facili esperimenti di troppi improvvisati, cosicché a credere alle malleverie gli artisti si dovrebbero contare a centinaia e a migliaia per il periodo volta a volta corrente, quando poi si tratta di decidere in sede appena appena storica, salva pochissimi nomi; e per gli altri, la seconda morte. Io mi sono sempre rifiutato a un tal modo di giudicare. Poco propenso a credere nei miti (perfino gli artisti importanti, come andrebbero ridimensionali!) sono sempre disposto a considerare lo sforzo verso l’arte, che viene da una coscienza pura che tenta di intrecciare con gli uomini un discorso meno privato di quello che si svolge di solito frettolosamente nella nostra vita comune. E tra queste anime pure che hanno tentato di raccontare qualcosa agli uomini sta certo quella di Paolo Pace, sindaco di Tolentino per cinque anni, pittore, insegnante, incisore, scomparso prematuramente (aveva appena 45 anni) il 23 aprile 1961. Una certa fortuna Pace l’ha avuta, perché c’è chi lo ricorda e chi apprezza soprattutto queste sue incisioni dove si stende lo spazio fermo della sua campagna marchigiana, tanto poco astruse quanto efficaci nella narrazione di un paesaggio che ebbe in Luigi Bartolini e in altri incisori della scuola di Urbino, non dimentichiamole, una prima celebrazione moderna.
Il paesaggio di Pace è costruito. Costruiti gli alberi seguiti nella direzione dei loro rami verso un orizzonte di ciclo vuoto, costruiti i cespugli di cui si sente il maggiore o minore spessore, costruiti i più piccoli segni tutti necessari a far sentire il procedere netto dei piani. E poi, per animare questa stesura naturalistico-costruttiva, nell’angolo, alla maniera degli antichi incisori, per esempio del Dùrer, un fiorellino inciso in un riquadro, a mò di firma.
Il procedimento incisorio di Pace è semplice, di mestiere classico. La lastra di rame è trattata senza alcun trucco. In un’epoca di tanti trucchetti e infingimenti, un acquafortista come Pace può sembrare fin troppo normale. Ma questa mi sembra sia la sua qualità principale, che può dare una prospettiva alla comprensione generale del suo valore. Di buona cultura è l’adoprare la lastra in modo pulito, trasferendo l’impegno dell’immaginazione dal trucco casuale alla vera invenzione, come può essere la dilatazione di un fiore o di un cespuglio in primo piano, la considerazione in chiave fantastica di un’impalcatura o di un groviglio di fili telegrafici, tutto ciò insomma che costituisce il trasferimento da un piano prettamente naturalistico a quello di rielaborazione culturale del vero.
Paolo Pace ha vissuto in modo quasi isolato dalle strutture artistiche nazionali. Si ricordano i suoi studi all’Accademia di Roma, dove poi egli ha esercitato l’assistentato alla cattedra di pittura, una sua partecipazione a mostre internazionali della Calcografia Nazionale, nell’America latina, il suo invito alla Quarta Quadriennale, alla mostra delle Olimpiadi e sue personali alla Cassapanca e alla Cairola. Non molto e sempre isolato. D’altra parte la sua sete di conoscenza della realtà, sull’orma dei migliori paesisti dell’Otto e del Novecento, non gli ha consentito transazioni con le improvvisazioni cosmopolite contemporanee. Le sue tenui, privale, acqueforti, che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di densità introspettive, da vero maestro, collocano Pace in quella autentica « élite » culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali.
Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che fa continua spola tra Copenaghen e Roma, tra Milano Amburgo, e che si giova del perfetto coordinamento di monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale appollaiato sulla collina, senza alambicchi o quiz figurali, nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia — il bagno nel fiume, i fiori di Valganna, l’intreccio delle bacche autunnali in un cespuglio — alcunché che possa interessarlo. Quella di Pace non è nuova figurazione, perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento?
Lo scherzo, l’ironia, il segno gestuale sono banditi innanzi che dalle lastre, dall’anima di Pace che ha lavorato prima per se che per il pubblico.
Ogni paesaggio visto lasciava in Pace un’impronta. Egli la restituiva alla lastra conservandone negli occhi l’ampia prospettiva quasi di nascosto. Così voleva preservare alla consumazione del tempo una tenue visione rievocata nella fantasia, la dolcezza tutta anima di una periferia cittadina o di una campagna come le può vedere il più sottile dei poeti, capace di incatenare a una visione indimenticabile.
I suoi mezzi sono purissimi: la striatura di una strada di campagna, il chiaroscuro spirituale in cui immerge un fiore, la punteggiatura degli alberi che da lo scheletro a un panorama, le macchioline bianche di commosso realismo dei fiori di campo, il simbolo figurativo di una corolla, la creazione di una mimosa come ricamo, l’emozione scattante ma metafisicamente pacificata di un fondo marino, la proposta di un piatto di granchi come natura morta assoluta.
Dovrei fare dei nomi. Sono troppo fascinosi e mitici per pronunciarli. Preferisco consegnare al pubblico una sertie di esempi, che forse domani potranno alimentare la piccola leggenda di un poeta morto giovane.
Li enuncio. Tra le acqueforti più traslate: Flora marina, Margherite, Rose, Periferia di Milano, Fiori di campo, Fiori e paesaggio, I tronchi; tra quella più naturalistiche: I fili del telegrafo, Gli ulivi chiari, Fiori in Valganna, Il pagliaio, La strada di campagna, La valle, Le mimose, Garofani e tulipani.
Raffaele De Grada.