Antologia critica

«In quanto al bianco e nero notiamo con piacere il ritorno all’acquaforte incisa ed al gusto della lastra di cui è sempre maestro Luigi Bartolini. Diversi dal Carbonati […] sono i tratti e i chiaroscuri del Barriviera, […] dello Zancanaro,  del Castellani, del Petrucci e degli incisori pallidi Pace, D’Adria e Caracciolo».

Vincenzo Costantini, “Il Popolo d’Italia”, Milano, 27 maggio 1943

«I paesaggi dell’Adda costituiscono una serie di brani di un lirismo in cui si fondono elementi di romanticismo paesaggistico nella classica misura metrica del sonetto. […] Schivo da queste ambizioni [letterarie, N.d.R.] Pace si attiene ad una nozione più pertinente al fatto figurativo semplicemente inteso: così nelle vedute di fabbriche, rigorosamente impostate, non indulge ad amplificazioni retoriche che, non sorrette da un adeguato slancio inventivo, tradirebbero la linearità della sua emozione e del suo stesso pensiero».  

Giorgio Rubinato, “Realismo”, Milano, maggio-giugno 1953

«Natura assorta e pensierosa, che par talora sconfinare nel romantico; anche se la solida disciplina della sua preparazione non sembra certo concedergli incompostezze o abbandoni. Natura che si riflette nei toni pacati, quasi smorzati che predilige, nell’armoniosa delicatezza di certe sue gamme del tutto in sordina, come per vietarsi qualunque sensuale effetto pittorico […] Niente, con tutto ciò, di crepuscolare, e, tanto meno di letterario.

[…] L’impegno con cui si è allenato nei diversi campi dell’arte può confermarlo pure il singolare suo interesse nei diversi rami dell’incisione, e specialmente dell’acquaforte in cui può dirsi un maestro».

Ugo Nebbia, presentazione in catalogo della mostra personale, Galleria Cairola, Milano, dicembre 1959

«Paolo Pace, artista marchigiano, espone per la seconda volta a Roma e presenta quasi esclusivamente fiori: dai girasoli agli anemoni,  dalle rose ai giacinti, ai crisantemi, ai garofani, tutti raccolti in vasi  dalle trasparenze lattiginose  come quelle delicate porcellane vitree che vedevamo  sui cassettoni delle nostre nonne. I fiori di Paolo Pace […] hanno una singolare ‘aria di casa’ e ci invitano quasi al raccoglimento.

[…] Notevole, in tutti questi dipinti, l’armonia dei fondi, sapientemente ordinati a dar risalto agli oggetti».

Enrico Contardi, “La Voce del Sud”, Foggia, 2 aprile 1960

«Pace è anche e soprattutto, diremmo, uno squisito incisore e la sua pittura – totalmente raffinata e costruita a larghe macchie di colore denso e sobrio – lo ricorda in qualche modo, particolarmente per la preziosità dei bianchi crudi, per il tagliente contrasto di questi con l’oscurità bruno-grigia dei corpi seminudi, nelle opere di figura; o anche per i sapienti incastri, ad esempio nei quadri di fiori, tra forme e stesure di fondo.

E’ una pittura, solida, asciutta, parca di colore  e di luce, specialmente nelle composizioni con le adolescenti  semisvestite, e formalmente vigorosa, oltre che ricca di finezze tonali […]  Alle succitate figure ed ai delicatisimi fiori  impregnati di intimità, si affiancano  vedute e paesaggi in cui la tavolozza di  Paolo Pace si fa più varia e luminosa, senza tuttavia uscire dal  pacato equilibrio  che è fondamentale caratteristica di questa pittura».

Vice, “Il Giornale d’Italia”, Roma, 20 aprile 1961

«Il Pace conosce innanzitutto il disegno e l’anatomia, che quasi tutte le opere esposte sono figure, et quidem nudi; conosce anche le risorse e  la libertà delle quali l’arte può disporre,  quando è sicura di se stessa. Alludiamo  all’arbitrarietà del colore di cui si serve il Pace: le carni delle sue freshe modelle sono uniformemente grigie, ed anche al grigio vengono ridotti altri  soggetti che richiederebbero tinte più consone alla realtà oggettiva.  Ma tale arbitrio nulla toglie all’esattezza del disegno, all’armonia della composizione, alla vitalità insomma dell’opera d’arte.

Oltre i numerosi nudi muliebri, il Pace presenta alcune vedute romane […], nonché nature morte floreali ove la materia è trattata preziosamente, pur  nel cromatismo ridotto a gamme contenute».

Enrico Contardi, “La Voce del Sud”, Foggia, 22 aprile 1961

«Una lieta, inattesa sorpresa ha rappresentato la mostra retrospettiva del pittore tolentinese Paolo Pace. [Egli] è un forte acquafortista e, inoltre, un incantevole pittore di fiori e di figurette umane. I suoi quadri sono tante elegie del nostro tempo. E anche i suoi toni più vivi appaiono un poco appassiti e macerati da un velo di nostalgia e di tristezza».

Dario Zanasi, “il Resto del Carlino”, Bologna, settembre 1963

«Pace incide come un antico maestro: la sua mano è felice e agile, il suo segno resta valido e presente anche a distanza di tempo. La sua incisione denota una profonda conoscenza della tecnica, denota soprattutto che le sue mani conoscevano l’importanza di una morsura e non tremavano quando l’immagine  veniva colta nell’attimo della grafia.

[…] Sapeva che l’incisione è un duro mestiere e che pochi possono  ad essa arrivare; sapeva che di grafica solo un’élite selezionata e severa quanto mai può parlare: ebbene, egli non ha temuto tutto ciò, specializzandosi proprio in questa arte che non è da considerare tra le minori anche se raramente di essa si parla.

Per Pace l’incidere era come per il poeta lo scriver versi. La sua tecnica, eclettica nelle prime lastre,  si è andata vieppiù perfezionando, i grandi incisori italiani  sono stati da lui assorbiti  sino a farlo giungere a quella elaborazione personale ove la sua mano, e solo la sua, è riconoscibile.

Egli aveva la cognizione esatta del fattore “tempo atmosfera” […]

Si è detto da più parti, e a nostro avviso erroneamente, che Pace era un melanconico e la sua pittura risentiva di tale stato d’animo.  A noi sembra che ciò sia inesatto, in quanto i colori del Pace, pur essendo contenuti in una gamma ristretta, sono di una gaiezza tale da non lasciar dubbi.  E’ vero che esistono quadri di tonalità spenta e soggetti di contenuto “modesto”, fiori secchi, l’uccellino morto, ma è altrettanto vero che nei suoi paesaggi  l’aria è limpida e tersa […].

Goffredo Binni, “Il Tempo”, Roma, 12 settembre 1963

«Una certa fortuna Pace l’ha avuta, perché c’è chi lo ricorda e chi apprezza soprattutto queste sue incisioni dove si stende lo spazio fermo della sua campagna marchigiana, tanto poco astruse quanto efficaci nella narrazione di un paesaggio che ebbe in Luigi Bartolini e in altri incisori della scuola di Urbino, non dimentichiamolo,  una prima celebrazione moderna.

Il paesaggio di Pace è costruito. Costruiti gli alberi seguiti  nella direzione dei loro rami verso un orizzonte di cielo vuoto, costruiti i cespugli di cui si sente il maggiore o minore spessore, costruiti i più piccoli segni tutti necessari a far sentire il procedere netto dei piani. E poi, per animare questa stesura naturalistico-costruttiva,  nell’angolo, alla maniera degli antichi incisori,  per esempio del Dürer, un fiorellino inciso in un riquadro, a mo’ di firma. 

[…] Le sue tenui, private, acqueforti, che cantano poetiche chiarezze di ulivi o fasci di fiori di densità introspettive, da vero maestro, collocano Pace in quell’autentica élite culturale che, per essere veramente italiana, acquista anche diritti internazionali.

Certo, se uno crede che l’arte d’oggi sia soltanto quella che […] si giova del perfetto coordinamento dei monopoli mercantili, non troverà nel pittoricismo dei panni stesi di Paolo Pace, nella scarna realtà fenomenica di un paese dell’Italia centrale appollaiato  sulla collina, […] nella semplice cronistoria del passaggio delle stagioni in una splendida regione d’Italia […] alcunchè che possa interessarlo. Quella di Pace non è una nuova figurazione perché è quella di sempre. Se invece uno cerca nell’opera d’arte un autentico godimento spirituale, il conforto del migliore momento della giornata, dove trovarlo meglio che  in questi mazzi di fiori isolati dall’esterno ma colti ancora nello scompiglio del vento, dove meglio che in questi sguardi panoramici, nei quali ciascuno ritrova la campagna che ha amato almeno per un momento? 

[…] Ogni paesaggio visto lasciava in Pace un’impronta. Egli la restituiva alla lastra, coservandone negli occhi l’ampia prospettiva, quasi di nascosto. Così voleva preservare alla consumazione del tempo  una tenue visione rievocata nella fantasia, la dolcezza tutta anima di una periferia cittadina o di una campagna come le può vedere il più sottile dei poeti, capace di incatenare a una visione indimenticabile. I suoi mezzi sono purissimi: la striatura  di una strada di campagna, il chiaroscurto spirituale in cui immerge un fiore, la punteggiatura degli alberi che dà lo scheletro a un panorama […] Preferisco consegnare al pubblico una serie di esempi, che forse domani potranno alimentare la piccola leggenda di un poeta morto giovane. Li enuncio. Tra le acqueforti più traslate: Flora marina, Margherite, Rose, Periferia di Milano, Fiori di campo, Fiori e paesaggio, I tronchi; tra quelle più naturalistiche: I fili del telegrafo, Gli ulivi chiari, Fiori in Valganna, Il pagliaio, La strada di campagna, La valle, Le mimose, Garofani e tulipani».   

Raffaele De Grada, presentazione in catalogo della mostra Incisioni di Paolo Pace, Milano, Biblioteca comunale Sormani, febbraio-marzo 1965.

«Soprattutto le incisioni rivelano qualità eccellenti sia sotto il profilo tecnico che sotto quello poetico, ma anche la pittura è tale da renderne auspicabile un riesame su più vasta scala».

Red., “Corriere Lombardo”, Milano, 6-7 marzo 1964

«Pittore e incisore, egli ha dato il meglio di se stesso con l’acquaforte.

[…] Ricordo le passeggiate con Paolo, all’estrema periferia di Milano, il girovagare tra gru e ciminiere e poi subito riaddentrarci nel verde, nella campagna. Le incisioni di Paolo, realixzzate in studio, mantengono la freschezza  del “plein air” e hanno insieme la severa misura della composizione pensata».

Ernesto Treccani,  Prefazione, in catalogo della “1a Biennale dell’Incisione dei Giovani”, Tolentino, Sala San Giacomo, maggio-giugno 1966

«Lirismo di istintiva presa, per la finezza dell’ispirazione e per l’interiore drammaticità del racconto, questo di Paolo Pace, che presenta una serie assai interessante di opere che, se da un lato rivelano un mestiere-principe, dall’altro  conservano il profumo di una semplicità autentica».

Pino Zanchi, “Giornale di Pavia”, Pavia, 17 novembre 1966

«Pace è un analitico, studia sul vero, cerca la prospettiva ad infinitum, si sofferma sui particolari che caratterizzano il ciglio di un colle o le quinte degli alberi, la facciata di una fabbrica o un salice d’inverno, senza mai astenersi dal segnare nello sfondo il contorno lieve e scarno delle montagne, le dimensioni di un cielo perso. Ha capito che la luce, in termini incisori, ha un alto valore fantastico».

Giuseppe Appella, Quattro incisori marchigiani del Novecento, testo in catalogo della mostra Quattro incisori marchigiani del Novecento. Vitalini, Mainini, Pace, Farbollini, I Biennale Internazionale delle Opere su Carta, Tolentino, Palazzo Sangallo, setembre-novembre 1996.

«Periferia per Pace è ora un territorio inanimato da descrivere con segni statici e composti. Attratto dalle nuove, anonime emergenze, accosta semplici muri bianchi  quasi privi di valenze volumetriche agli alberi residui,  ai pali della luce appena istallati,  a territori di confine ancora sterrati».

Alida Molpedo Mapelli, Il mutamento del paesaggio. Gli incisori e la città nella prima metà del Novecento, in Italia, in catalogo della mostra Paesaggio urbano. Stampe italiane della prima metà del ‘900 da Boccioni a Vespignani, Roma, Artemide Edizioni, 2002. p. 22.

«Nel 1942 partecipa alla X Sindacale di Belle Arti del Lazio, esponendo nature morte eseguite con la tecnica dell’acquaforte. Già in questo frangente rivela uno stile calligrafico volto alla definizione dei particolari e al sottile intreccio dei tratti, come nelle finissime ramificazioni che si estendono sulla superficie di Mimosa […].

[I dipinti esposti nel 1960 alla Cassapanca di Roma] sembrano suggerire al pittore uno stile più attento ai valori atmosferici, ai profili rarefatti […]. Ai fiori e alle figure si affiancano vedute e motivi paesistici in cui la tavolozza si fa più varia e luminosa. Panorami di campagna compaiono anche in acqueforti  che si distinguono per i tratti filiformi che costruiscono l’immagine e invadono i vuoti,  Paesaggio a Cassano d’Adda e La strada di campagna. Ciò non di meno si nota l’interesse dell’artista verso il paesaggio urbano e la struttura meccanica come elemento paesaggistico, specialmente in campo grafico, come dimostra la serie di stampe  in catalogo [le sei acqueforti della serie Periferie del 1952 circa – N.d.R.] e l’acquaforte Porto di Genova, dove troneggiano lo scafo di una nave e i ponteggi del cantiere».

Alessandro Ruggieri, Paolo Pace, scheda critico-biografica, ibidem, 2002, s.p.

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